Paolo Di Paolo ci ha affettuosamente segnalato un saggio di Marco Marsigliano, pubblicato il 16 maggio 2014 su
Narrazionionline.com, che ripercorre l’intera opera narrativa di Riccarelli e che ci permettiamo di riprodurre integralmente:
Ugo Riccarelli e la forza analgesica della parola
I. Esiste una sofferenza profonda, lucida e argentina, impertinente come un vizio, violenta eppure indispensabile, che segna le strade degli uomini cambiandone per sempre gli indirizzi, così assoluta ed essenziale da sembrare bellezza, è l’incantevole amarezza della vita, il suo fascino e insieme la sua disperazione. È Il dolore perfetto.
Guidato da questa compiutezza, Ugo Riccarelli dà alle stampe uno dei suoi romanzi più riusciti (concedendosi, fra l’altro, un premio Strega) dove l’ineluttabilità della condizione umana trova la sua dimensione migliore incarnandosi in questa traumatica perfezione che si ripete in un ritornello ossessivo e lancinante, investendo con la sua monotona cantilena tutti i personaggi del racconto, rincorrendoli tra le pagine, ferendoli, uno per uno, con precisione inevitabile. È un’angoscia cieca, un tormento improvviso che attraversa il tempo e la ragione abbattendosi come una scure di equanime ingiustizia sulle esistenze ignare dei protagonisti. Ma è anche un’illuminazione, un lampo di luce nel buio, l’elemento catalizzatore di una forma di conoscenza naturale, di una reale esperienza di mondo: infatti ogni volta che perdiamo di vista la consistenza delle cose, che tradiamo la realtà che ci circonda cedendo alle lusinghe di surrogati fittizi e artificiali, un dolore perfetto interviene a squarciare il velo d’illusioni che gli uomini tessono intorno a se stessi nella convinzione effimera di riuscire a governare il timone delle loro vite, di definirne i contorni, di trovare sensi e dinamiche di un meccanismo dall’ingegneria sconosciuta.
Già in Stramonio il protagonista omonimo confessa, in uno stralunato colloquio con due piccioni, che nella sua vita «proprio nulla è andato come pensava che andasse» (Riccarelli, 2009a, p. 22). Una consapevolezza chiara che espande le sue radici nel successivo Il dolore perfetto per poi innervare, in una progressiva escalation, gli scenari esotici di Un mare di nulla, dove l’inadeguatezza delle singole scelte di fronte all’imprevedibilità della sorte si manifesta in tutta la sua formidabile prepotenza. Infrangendosi contro i marosi del destino, le speranze a lungo centellinate, coltivate e cullate al caldo degli affetti quotidiani mostrano quale sia la spietata verità dietro l’inganno: l’impossibilità, cioè, di controllare le logiche degli eventi, di condurre in porto i propri desideri, di decidere, di progettare e organizzare un futuro che ha il sapore spiacevole di una promessa non mantenuta, e che ci obbliga, barche di carta in un oceano turbinoso, a cambiare la rotta predefinita, percorrendo un itinerario alternativo diversamente indesiderato:
[…]: vivere è un continuo provare a tenere tese le vele di bolina annodando la furia del mare dentro grovigli di canapa, illudendosi di conoscere la rotta e il proprio destino, essendo invece semplici marinai in balia del primo capriccio del vento (Riccarelli, 2006, p. 157).
In Commallamore, questo senso di fatalità ormai si afferma definitivamente come uno dei punti focali della produzione dello scrittore piemontese, conferendo al suo discorso un profilo maggiormente nitido e definito: «Dottore, perché moriamo?» domanderà al giovane Beniamino uno dei matti protagonisti del romanzo: «Non lo so. Non sappiamo perché moriamo, Fosco. E forse per questo non sappiamo neppure perché viviamo» (Riccarelli, 2009, p. 176). È, quindi, proprio il mistero della morte che, privando la vita di ragioni specifiche e rendendola oltremodo oscura, labile e vacillante, precipita l’essere in una vertigine di insicurezze, in un tumulto di perenne sospensione, imprigionandoci nelle insondabili inquietudini con cui attraversiamo il tempo delle nostre vite come fossimo «foglie al vento, fragili cose in balia del mondo» (Riccarelli, 2004, p. 63). Ma nel romanzo si insinua chiaramente anche un’altra, differente prospettiva, il sospetto cioè di qualcosa di fatidico, di imponderabile, che travalica la pura casualità e la praticata immagine delle foglie al vento, qualcosa di inevitabilmente già scritto.Tuttavia, quale che sia la definizione dei destini umani, rimane la condizione comune di un analfabetismo esistenziale, quell’ignoranza delle regole del gioco responsabile dell’abisso di sgomento in cui siamo immersi, annegati nei mille rivoli di paura che ognuno chiude in se stesso nascondendoli allo sguardo degli altri, come una pudica debolezza, alimentata dalla solitudine e dal vuoto che ovunque ci circonda: un «mare di nulla», appunto, l’assedio di una vanità infinita.
Ebbene, colmare questo nulla, arginando il malessere in cui ci costringe, è possibile soltanto rifugiandosi negli spazi illimitati della mente, nelle combinazioni inesauribili dell’invenzione, per costruire una realtà immaginaria in un universo ideale, un mondo dentro a un mondo, un’altra ipotesi di vita: non un risarcimento che sostituisce il reale con un suo doppio posticcio ed edulcorato, ma piuttosto un’evasione controllata di forme e pensieri verso una primavera che, nonostante la sua fallace inconsistenza, ci consente di colorare di azzurro le tinte scure delle pareti che ci opprimono, di dare un senso e un nome nuovo alle cose, permettendoci, dunque, di respirare un’atmosfera di terapeutica finzione.
Saranno proprio gli «inutili macchinari» a salvare alcuni dei protagonisti di Un mare di nulla dalle angherie naziste, distraendo i soldati tedeschi con i loro ritmi calcolati, automatismi stravaganti che riproducono fedelmente suoni e rumori del mondo, piccoli congegni sterili ma capaci di allontanare dall’uomo la minaccia di una sofferenza sempre in agguato, ancora una volta con un’illusione, con un artificio.
Nel romanzo l’imprecisato protagonista ricordando alcuni episodi della vita di suo padre così come lui gliel’ha raccontata, iperbolica e mirabolante, venata di ottimismo e di speranza, traccia in definitiva la storia di un imbroglione, di un mistificatore, di un ladro abilissimo che sottrae verità alle cose per rivestirle di illusioni, un baro i cui trucchi sono visioni profumate dentro grappoli di parole, e la sua vita un costante atto d’amore condito dalla «generosità infinita delle sue bugie» (ivi, p. 19):
I suoi grimaldelli erano proprio le parole, e parole le sue mani da prestigiatore con cui in fondo scriveva il mondo e le cose e i desideri che, lui si immaginava, gli altri avrebbero voluto realizzare (ivi, p. 11).
In questo modo i sogni perdono il loro potenziale di realizzabilità, la concretezza materiale, ma diventano puramente utopici, valvole di sfogo, illusioni coscientemente false e inattuabili, ma proprio per questo indispensabili, poiché «nella vita non importa nulla come vanno a finire le cose, ma tutto è solo desiderio, valore, anelito» (Riccarelli, 2000, p. 59).
La scrupolosità del racconto, la sua verosimiglianza, sembra essere, dunque, meno importante del raccontare in sé. In Il dolore perfetto si descrive l’abitudine degli abitanti del piccolo borgo di Colle, dove il romanzo è ambientato, di «raccontarsi la vita così come piaceva a loro e non alla vita» (Riccarelli, 2004, p. 120), «adattando la realtà al loro gusto per il paradosso, per l’amore e per il raccontare» (ivi, p. 179). La sostanza non è nella veridicità dei fatti, ma nella musicalità delle parole con cui sono raccontati, nel loro potenziale visionario, nella capacità di racchiudere e tramandare esperienze, di insegnare, di guarire. Quelli di Riccarelli infatti sono romanzi parlati: un inestricabile intreccio di storie, un perpetuarsi incessante del passato attraverso il continuo rovistare nel disordine dei ricordi, dove tutto riposa e ritorna, e realtà e finzione si mescolano in un connubio indefinibile:
Il piccolo Sole, per tramite di quella sua malattia, conobbe fino in fondo il tempo lento delle parole e la magia del raccontare, la possibilità di trovare un respiro largo negli oceani dell’immaginazione e nella memoria del passato, e il battito del cuore nel coraggio di persone ormai scomparse, e la corsa sfrenata in geografie di luoghi lontani e affascinanti, o vicini a lui ma ormai cambiati irrimediabilmente dal tempo trascorso (ivi, p. 214).
Il passato non si separa mai completamente dal futuro, ma ritorna rinnovato di senso, attraverso nuove storie e numerose altre vite che lo percorrono, diversamente identico, perennemente in divenire, in una continua e costante evoluzione: «una sorta di indefinitezza, che sgretola le certezze di un certo storicismo, l’idea positivista che comunque si vada sempre avanti, che lo scorrere delle ore, dei giorni, degli anni, rechi inevitabilmente con sé una “necessità”». Così Riccarelli ebbe modo di descrivermi il riflesso che la storia riverbera nelle infinite stagioni del tempo: un tempo vorticoso e spiralidale dove passato e futuro si rincorrono incessantemente, sfiorandosi, ma senza incontrarsi e sovrapporsi mai l’uno con l’altro.
Un continuo ritornare, un riciclo che trasforma il passato in un corpo vivo che a sua volta porta con sé, rigenerandoli, i germi del presente e del futuro:
Le cose cambiano, avrebbe detto Telemaco, cambiano le stagioni e tutto torna, e forse pensare di sfuggire a questo rotolare è cosa ingenua, debole luce contro il tempo non vale (Riccarelli, 2004, p. 193).
In sintonia con quanto detto forse non è un caso che una delle prime prove letterarie di Riccarelli sia stata la riscrittura immaginifica della biografia di Bruno Schulz, che lo scrittore polacco aveva già fissato nelle volute oniriche del suo Le botteghe color cannella. E così Un uomo che forse si chiamava Schulz racconta la fuga da una realtà incomprensibile, l’allucinata evasione da una prigione fatta di insensatezze, di vicoli ciechi, di piccole stanze affollate. Attraverso la magia dei sogni, l’autore ci conduce in un circo meraviglioso popolato da insoliti personaggi, animali curiosi, buffi giocolieri di un altro pianeta, uno spettacolo celeste dove il tempo si ferma e si rovescia, e mentre fuori la storia continua a scorrere rumorosa travolgendo con la forza inarrestabile della sua piena le fragili speranze degli uomini, noi restiamo a galla, aggrappati a un salvagente di parole colorate, schegge di favole gelosamente custodite nei disegni e nei racconti di Bruno.
La capacità di dare vita alle illusioni, di smarrirsi in un sovrappensiero, di riscaldarsi con il fuoco inesauribile dell’immaginazione, è un’abilità necessaria senza la quale il sottile equilibrio su cui si regge la stabilità delle nostre vite si spezzerebbe irrimediabilmente precipitandoci nel baratro di una malinconica apatia che il determinismo delle logiche umane non è capace di sanare.
In Il dolore perfetto la Rosa, ragazzotta timida e sentimentale, delusa dagli esiti di un matrimonio affrettato, viene colta da una sorta di incanto improvviso dopo aver dato alla luce due gemelli, Annina e Sole. Avviluppata in un involucro di stravagante armonia consumerà i suoi anni nello spazio di un’alienazione volontaria crescendo i propri figli con le cure e le attenzioni di una madre devota, insegnando loro la bellezza nascosta sotto la crosta granitica degli oggetti, consapevole di come «l’azzurro nasconde linee infinite» e di come al contrario «gli uomini si riempiono di solitudini e di niente» (ivi, p. 65). Sarà invece suo marito Ulisse a impazzire davvero, divorato dal verme dell’insoddisfazione, interamente assorbito dalla sua attività di commerciante di maiali, impegnato ad accumulare denaro e prestigio, posseduto dal demone di un materialismo opulento eppure ingrato, lo stesso che lo aveva portato un giorno a considerare il matrimonio come una scelta opportuna, un accordo vantaggioso, l’ennesimo buon affare. Così, mentre la Rosa fuggirà via con il medico dei balocchi che il sogno di suo figlio Sole le aveva regalato, l’Ulisse finirà per impiccarsi tragicomicamente con le budella di una delle sue adorate scrofe in una gelida notte di violenta dissolutezza.
Siamo di fronte a una doppia condizione di follia: funzionale e responsabile quella della Rosa, che esercita con pienezza il suo diritto di vivere e «morire sognando» (cfr. ivi, p. 219), e, per inversione, distruttiva e incontrollata quella dell’Ulisse, incapace di abbandonarsi alle prospettive confortevoli dell’invenzione e annichilito dall’ingordigia cannibale della sua stessa fame di mondo. Potenza creatrice la prima, marea devastatrice la seconda.
Il tema della follia e delle sue differenti valenze, che in Il dolore perfetto resta in secondo piano, trova una compiuta espressione nelle pagine di Comallamore dove, sullo sfondo del secondo conflitto mondiale, la vita del giovane Beniamino, aspirante medico reso zoppo da un infortunio calcistico, incontra quelle di un gruppo di matti ospiti del manicomio locale che sorge proprio accanto alla sua abitazione e in cui finirà per lavorare giocoforza, a causa dell’improvvisa morte del padre che lascerà la famiglia in un imprevisto stato di bisogno. Beniamino osserva i matti. Fin da bambino li guarda curioso dallo spazio geometrico di una rete metallica che interrompe, misteriosa stranezza architettonica, il muro di recinzione del manicomio. È affascinato dai movimenti sgraziati di quei corpi reclusi, dai loro comportamenti esasperati ma innocui, dalle linee complicate di quei volti sconvolti dalle nebbie cupe della malattia, menti disordinate ma non necessariamente abiette, forse semplicemente diverse. I giochi infantili dei matti nella campagna del Pianoro dove sono stati ricoverati per sfuggire le atrocità naziste, sono in realtà lo strumento per liberarsi dalle paure, per recuperare, nell’astrazione di un gesto, nella poesia di una nenia familiare, la concretezza di un sorriso. La purezza e la genuinità dei matti stride del resto con l’enormità della guerra in atto, la crudeltà di una ben diversa follia, un’insania reale rivestita di apparente normalità. E allora diventa possibile ritrovare la serenità e la fiducia mangiando i petali di un fiore o aprendo le braccia per lanciarsi in un volo liberatorio.
Questa amalgama tra verità e finzione costituisce la base germinale della letteratura di Riccarelli, la pietra grezza da cui la sua scrittura trae corpo e linfa vitale. Del resto in quasi tutti i suoi romanzi le fantasiose evoluzioni portate in scena dai numerosi personaggi si consumano su fondali storici piuttosto determinati, restituiti al lettore con notevole fedeltà documentaria. L’autore mostra una particolare predilezione per la storia italiana della prima metà del Novecento. Anche in queste scelte compositive si manifesta la frizione tra realtà e invenzione, per cui si è spesso ricorsi alla definizione di «realismo magico» più che di romanzo storico propriamente detto. Tuttavia, la componente fantastica, nella maggior parte dei casi, non sembra avere un’origine soprannaturale misteriosa, ma è un’ipotesi d’irrazionalità in qualche modo «ragionevole», cosicché l’illusione non è separata dalla realtà, ma da essa promana, come se reale e immaginario non fossero due identità distinte ma la stessa natura vista da due punti di osservazione differenti.
Si pensi, per esempio, al netturbino Stramonio che, come si accennava, racconta la sua storia a due piccioni capitati per caso sul davanzale di una finestra dell’ospedale che lo ospita. Una figura dall’identità ambigua i cui caratteri sembrano originare in parte dalla fantasia dell’autore, in parte dalla biografia dello scrittore ceco Bohumil Hrabal, di cui Stramonio, non a caso, è fortemente appassionato, morto proprio per essersi sporto troppo dalla finestra di una stanza dell’ospedale dov’era ricoverato per una banale patologia nel tentativo di sfamare dei piccioni. La distinzione tra persona e personaggio si assottiglia, e il lettore non è più in grado di decifrare con nettezza la giusta distanza tra le due prospettive:
Attraverso la forma del romanzo realtà e finzione si mescolano. […]. Se si dice che il poeta è fingitore e poi questa finzione, quasi inevitabilmente, finisce per diventare un alterno e veritiero aspetto della realtà, allora lo scrittore (usando mezzi simili o uguali a quelli del poeta) fa si che il risultato finale della fantasia sia la verità, la forza del raccontare.
Con queste parole l’autore descrive il valore e il significato del rapporto che intercorre tra realtà e finzione: in altri termini, quella di cui scrive Riccarelli non è l’immaginazione consolatoria che sostituisce/mistifica la realtà con dei simulacri, quanto piuttosto la cifra stessa della sua percezione, un’estensione di sensi, uno sguardo al di là del muro che abbiamo davanti.
Una nuova saga familiare, come quella messa in scena in Il dolore perfetto, occupa le pagine di L’amore graffia il mondo, l’ultimo, appassionato romanzo che Riccarelli realizza prima della sua prematura scomparsa avvenuta nel luglio del 2013. Ritornano i temi canonici della sua produzione letteraria: il valore del tempo, la prepotenza dei ricordi, l’ineluttabilità della sofferenza, la bizzarria di una realtà colorata dal sogno ma ugualmente concreta, e soprattutto l’attenzione particolare per le piccole cose che, invisibili e silenziose, legano insieme passato e futuro, e costruiscono storie che inevitabilmente ci assomigliano.
La vicenda si sviluppa tra il primo dopoguerra e una generica contemporaneità, uno spazio intuibile ma non definibile con immediata certezza poiché l’autore, privando il testo di date precise, consegna al lettore il compito di ricomporne gli indici temporali attraverso indizi, descrizioni e fatti disseminati nel racconto. Anche l’ambiente geografico, ancor più del contesto storico, è poco certificabile. Il paesaggio si compone di un borgo e della sua stazioncina, un Belvedere e un non meglio precisato Castiglione. Solo Milano e la provincia di Torino (che omaggia i natali dello scrittore) sono espressamente citati.
Delmo fa il capostazione e vive nella casa dei ferrovieri, un edificio sgraziato piazzato in mezzo ai binari. È un uomo genuino, fiero e risoluto, ha combattuto la Grande Guerra e crede nella giustizia e nell’eguaglianza promesse dal comunismo. La mattina in cui sua moglie Maria dà alla luce una bimba riccia e irrequieta, Delmo si vede passare davanti Signorina, una locomotiva così soprannominata per la straordinaria fusione di potenza ed eleganza che la sua figura esprime. Ed è così che deciderà di chiamare sua figlia, Signorina, un nome insolito per una bambina destinata anche lei a essere forte come l’acciaio e leggera come la grazia.
La storia del romanzo è in sostanza la storia della vita di Signorina, la sua nascita e la sua morte sono gli apici di una ferita che attraversa il Novecento, e diventa il simbolo di un popolo illuso dal fascismo, sopravvissuto alla guerra, straziato dalla fame e dalla miseria. La famiglia di Signorina è l’archetipo della società rurale del tempo, dove la concezione patriarcale dei rapporti influenza non soltanto l’andamento domestico ma persino le scelte esistenziali dei protagonisti. In questa ecologia Signorina deve scontare la colpa di essere donna, una condizione che la subordina alla volontà del maschio, impedendo alla sua natura intrinseca di manifestarsi compiutamente senza procurare attriti con proibizioni preconcette e sessiste. Il percorso obbligato in cui sembrano incanalate le esistenze femminili del romanzo sfocia però in esiti assai differenti tra loro: la Maria accetterà il suo ruolo passivamente, mostrando una dedizione che rasenta il servilismo, con l’unica consolazione della preghiera, una pratica che tuttavia appare più legata a un’abitudine acquisita che a una sincera devozione. Ada, la sorella maggiore di Signorina, sceglierà, al contrario, la strada della ribellione che le costerà il rifiuto e l’allontanamento dalla famiglia. Una disubbidienza realizzata attraverso l’amore, cieco e incondizionato, per un meccanico festaiolo e superficiale, squadrista della prima ora, sedotto dal fragore della guerra e dalle effimere esaltazioni della Repubblica Sociale. Riccarelli lo chiama Mario, quasi a voler segnare il contraltare maschile della Maria. Signorina è invece una creatura speciale. Da bambina, su una panchina della stazione dove lavora suo padre, incontra uno strampalato omino con gli occhi a mandorla che le regala un vestitino per la sua bambola di pezza ottenuto da un foglio di carta ripiegato (cfr. Riccarelli, 2012, pp. 15-16). Quella che pare una semplice cortesia incarna il talento di sarta che Signorina porta dentro di sé, la fantasia, la creatività, la capacità di inventare modelli e silhouette, di disegnare e imbastire la bellezza. Un talento che vediamo crescere e fiorire quando Signorina viene mandata a prendere lezioni di cucito nel laboratorio della signora Mei, la sarta del paese. La donna conserva gelosamente in alcuni quadernetti la preziosa sapienza della sua arte, e quando la guerra con il suo seguito di morte, percorrerà il piccolo borgo, la Mei deciderà di regalare a Signorina i preziosi quaderni, consegnandole in questo modo un testimone e insieme una disposizione di vita.
L’emotività che caratterizza Signorina, la rende il personaggio più equilibrato di tutto il romanzo, individuando così quasi un paradosso tra la consueta svagatezza che un animo sensibile solitamente impone, e la determinazione, la sicurezza, l’effettivo senso pratico che invece Signorina dimostra di possedere e che istruisce i suoi pensieri e le sue decisioni. È lei infatti a vegliare il padre Delmo nei giorni che precedono la sua dipartita, raccontandogli quello che accade in paese, e quando le storie si esauriscono, Signorina se ne inventa di nuove, anche lei consapevole di come le parole possano essere strumenti terapeutici e possedere la straordinaria capacità di addolcire un dolore. È lei che decide di sposare Beppe, di accettare senza riserve la sua magrezza, quella sgraziata goffaggine che le rapisce il cuore fino all’innamoramento, ed è sempre lei che difronte all’incompetenza manifesta del marito nella gestione economica della loro vita matrimoniale, ne prende in mano le redini per raddrizzarne gli esiti, trasformandosi di volta in volta in architetto, in contabile, in amministratrice, inventandosi un nuovo lavoro per Beppe, e diventando infine madre del piccolo Ivo, un figlio nato prematuro, con la passione per la musica e il respiro corto e fragile, minato dalla tubercolosi. Ivo sarà fonte di preoccupazioni e sofferenze ma anche l’oggetto verso il quale Signorina dirigerà il suo smisurato affetto.
Fin dal titolo Riccarelli pone l’accento su quello che è il fulcro dominante del romanzo, e cioè la relazione cannibale tra l’amore e il dolore che, per esistere, devono necessariamente nutrirsi l’uno dell’altro. Un’antitesi dunque, una contraddizione in termini che sottolinea come il dolore non solo scaturisca dall’amore ma sia un lievito necessario per permettere a quest’ultimo di esprimersi. Signorina ama, e per non soffocare la sua vocazione all’amore è costretta a rinunciare ai suoi sogni, a mortificarsi, a trasformare la sua vita in un lungo e ininterrotto martirio, consapevole che la sofferenza è il prezzo necessario per consentire alle persone che le sono accanto di condurre un’esistenza migliore. Più volte tenterà vanamente di assecondare il suo desiderio di aprire una sartoria, accarezzerà l’idea di ricavare uno spazio solamente suo dove disegnare, tagliare e cucire i modelli che la sua fantasia gli suggerisce, per ripagare così l’oracolo dell’omino con gli occhi a sghimbescio e la fiducia che la signora Mei aveva in lei riposto affidandole i suoi quaderni.
L’immagine finale che trasla la morte di Signorina, precipitata in un profondo scoramento, in una sequenza onirica in cui lei, dopo aver attraversato i muri dell’ospedale dove è ricoverata, si presenta al figlio nuda, mostrandogli la sua carne lacerata, consumata dallo stesso amore che quel figlio aveva generato e protetto fino all’abbandono di sé, ricompone il senso del racconto individuando nella figura di Ivo, ormai musicista di successo, guarito dalla sua malattia grazie a un trapianto polmonare, la giustificazione del sacrificio compiuto, liberando dal suo peso sia la vita che la morte.
Il romanzo è un inno alla donna, colta non nella sua eccezionalità ma nella quotidianità più ordinaria. L’ispirazione arriva infatti a Riccarelli dalla vita di sua madre Ilva, come racconta sua moglie, Roberta Bortone, durante la cerimonia che ha premiato il romanzo con il Campiello, per la prima volta assegnato postumo. Sempre in bilico tra la realizzazione personale e la cura della famiglia, Signorina è dunque il simbolo della donna tout court, della donna nella Storia che, nonostante i cambiamenti sociali, resta ancorata alla sua natura genitrice, alla figura domestica che tradizionalmente la identifica.
Un aspetto che si dimostra particolarmente pregnante è l’importanza dell’esperienza giovanile. Non sono pochi i momenti in cui Signorina sogna o ricorda la sua infanzia, le interferenze che le riportano alla mente l’Armida, l’oca che viveva nel casotto di lamiera con cui Signorina si confessava come fosse un amica, persino la guerra, che pure ritorna spesso nei pensieri della protagonista, sembra essere legata non tanto all’evento quanto al periodo in cui è stata vissuta. La nostalgia corrode il presente e le immagini impresse nella memoria fissano uno stato di serenità che il tempo ha modificato o cancellato. Così tornando al suo paese Signorina non riesce più a riconoscere la casa dei ferrovieri dove è nata e cresciuta, i gradini sbeccati, le porte lise; la ricostruzione post-bellica l’ha trasformata in un fabbricato nuovo, diverso, che ha ammutolito l’eco della sua infanzia. Persino il profilo del paese è cambiato, nulla è rimasto dell’ampio orizzonte in cui il suo sguardo di ragazza si immergeva. La perdita dei luoghi dell’infanzia genera uno spaesamento emotivo che nel romanzo affiora ogniqualvolta Signorina cerca di rimettere insieme i pezzi scollati della propria vita, ricomponendoli in qualcosa che rassomigli al tempo della sua giovinezza, ma il presente è solo una pallida imitazione di passato.
Ivo rappresenta l’elemento più spiccatamente autobiografico presente nel romanzo. La malattia polmonare che lo debilita fin dalla nascita, ricalca la vicenda personale di Riccarelli che a causa della medesima insufficienza è costretto nei primi anni Novanta a sottoporsi a un doppio trapianto (cuore e polmoni) in un ospedale inglese. Anche Ivo affronterà la stessa sorte in un viaggio della speranza regalatogli dalla tenace abnegazione di sua madre. Lo scrittore piemontese aveva già trattato l’argomento nel suo romanzo d’esordio, Le scarpe appese al cuore, dove l’intera vicenda viene rielaborata senza sentimentalismi e l’uso della prima persona non impedisce all’autobiografismo di liberarsi dalla sua dimensione particolare per trasformare il racconto in una riflessione universale sulla vita. Un romanzo che consegna all’autore la consapevolezza di essere scrittore, e che nasce da un diario che Riccarelli porta con sé in Inghilterra, e in cui appunta le istantanee di quei momenti angosciosi, le impressioni, le riflessioni, i dubbi, le speranze, i sogni. Diversi anni più tardi Riccarelli tornerà sul tema del trapianto con Ricucire la vita, un romanzo-saggio che, partendo da una visita all’ISMETT, istituto palermitano di eccellenza nel settore, unisce l’aspetto meramente clinico a una meditazione sul senso e sulla funzione della malattia. Viviamo in una società all’interno della quale il continuo sviluppo tecnico e scientifico tende a far considerare l’eliminazione del dolore e della morte come un traguardo raggiungibile, tuttavia la morte e il dolore non sono corpi estranei ma fanno parte della stessa materia della vita, non è quindi concepibile cancellarne gli effetti:
La morte non può essere considerata un insuccesso tout court, dunque, proprio perché essa è legata in maniera indissolubile alla vita e anzi, direi, una riceve senso dall’altra (Riccarelli, 2011, p. 62).
Lo dimostra la pratica di un «mondo che interagisce» (ivi, p. 52), che all’avanzare delle possibilità curative oppone nuove patologie, nuovi ceppi virali, ponendo continuamente nuove sfide mediche. La malattia invece ci obbliga a confrontarci con noi stessi, ad accettare la nostra natura fragile e caduca, aiutandoci a distillarne il valore. A questo proposito, ben due anni prima di pubblicare Ricucire la vita, l’autore mi scriveva:
Il dolore, la sofferenza è una condizione dell’umano essere, della vita dell’uomo che non può far altro che vivere la propria esistenza comprendendo (nel senso più ampio del termine) questa sofferenza, proprio per rimanere vivo e umano.
Il trapianto esemplifica egregiamente questa intersezione tra la vita e la morte poiché le aspettative del malato dipendono inesorabilmente da un evento mortale. L’idea che la propria sopravvivenza origini dalla morte altrui, genera nel paziente un conflitto etico, una sorta di senso di colpa indotto al quale è difficile sottrarsi. Tuttavia Riccarelli, servendosi delle voci autorevoli di medici, filosofi e psicologi, nonché di autocitazioni del suo Le scarpe appese al cuore, disseminate nel testo, ci rende partecipi di una prospettiva differente: la donazione degli organi non deve essere considerata come un gesto umanitario ma come l’atto civile di una società progredita (cfr. ivi, pp. 74-75).
II. Un’influenza piuttosto riconoscibile è quella esercitata dal modello di Tabucchi. Di fatti, una notevole consonanza si può facilmente individuare, per esempio, tra Piazza d’Italia, che segnava nel 1975 l’esordio narrativo dello scrittore pisano, e Il dolore perfetto: entrambi i romanzi sono ambientati nella terra dei ricordi e dell’infanzia, una Toscana sacrale e mitica immersa in un’atmosfera sfumata e quasi fiabesca. Il Borgo di Tabucchi e il Colle di Riccarelli sono due cittadine dai nomi indefiniti, che, se non fossero intrappolate tra paludi e maremme, potrebbero avere una collocazione spaziale amplissima. Anche l’arco temporale è pressappoco il medesimo, ed è circoscrivibile al periodo che intercorre tra l’Unità d’Italia e il secondo dopoguerra, sullo sfondo del quale si svolgono le anguste vicende generazionali di personaggi impercettibili, figli dimenticati di una storia clandestina, dai nomi sintomatici ed evocativi: Garibaldo, Quarto e Volturno colorano le pagine di Piazza d’Italia e sembrano in qualche modo preludere alla fantasiosa teoria di Riccarelli che con Ideale, Mikhail, Libertà e Cafiero costruisce le piccole saghe familiari di Il dolore perfetto. Caratterizzati da uno sguardo sensibile, e conditi da appassionati slanci di anarchismo e socialismo popolare, i due romanzi sono stretti in un rapporto di analogia, dove il secondo si propone, per sviluppi tematici e varietà d’intreccio, come un’evoluzione significativa del precedente.
Allo scrittore pisano, «che è andato appena un attimo di là», come si legge nell’esergo de L’amore graffia il mondo che a Tabucchi è dedicato, Riccarelli era legato da sincera amicizia e da profonda ammirazione. Proprio all’interesse di questi infatti deve la pubblicazione del suo primo romanzo, Le scarpe appese al cuore, le cui bozze giunsero a Tabucchi, che lo recensirà con parole lusinghiere, grazie a una comune conoscenza. Un debito di gratitudine impossibile da colmare, e che anzi crescerà nel tempo permettendo allo scrittore piemontese di formarsi nell’officina di Vecchiano dove Tabucchi soggiornava durante i suoi rientri in patria.
Seguendo ancora il gioco dei rimandi, il titolo dell’ultimo romanzo, L’amore graffia il mondo, suggerisce un’analogia con il secondo e ultimo lavoro di Furio Monicelli, fratello del più noto Mario, scomparso nel novembre del 2011. Pubblicato da Longanesi nel 1961, I giardini segreti sarà ristampato da Mondadori nel 2000, rimaneggiato dallo stesso autore, con il titolo de L’amore guasta il mondo. Nel testo di Monicelli la morte del giovane Sergio in un incidente stradale frantuma tre differenti legami: quello amicale con un sacerdote, quello sentimentale con Anna, e quello filiale con sua madre. In tutti e tre i casi la morte consente all’amore di fermentare in qualcosa di doloroso, di assente, che mette in crisi le esistenze dei protagonisti. Ma è il maggiore di questi legami, quello materno, a generare la scucitura più profonda, deformando la realtà nell’ostinazione della madre a voler considerare Sergio ancora vivo. Riccarelli riformula il rapporto madre/figlio invertendone i termini, laddove la morte suggella un lungo percorso d’amore che la madre compie coscientemente per il figlio, cosicché il dolore che ne deriva, volontario, accettato, consumato, è sostanza feconda e non distruttivo.
Alcune somiglianze e richiami si possono intravedere sovrapponendo il romanzo di Riccarelli al Mastro-don Gesualdo di Verga. Al di là degli elementi verghiani generali riconoscibili anche in Il dolore perfetto, come l’ambientazione rurale, l’impostazione patriarcale della società, la scelta di narrare una saga familiare, ci sono alcuni personaggi e situazioni che sembrano rincorrersi da un romanzo all’altro. Per esempio il matrimonio di convenienza che lega Gesualdo a Bianca, intrappolandola in un’esistenza piatta e anaffettiva, assomiglia al matrimonio tra Delmo e Maria, la quale non certo per amore ma per un altro tipo di utilità, dettata da un istintivo senso del dovere, sposerà Delmo dopo che la sua migliore amica Luisa, prima moglie dell’uomo, morirà di parto. Esemplare è anche la scena della fuga nottetempo di Signorina e della sua famiglia verso la località del Castiglione, durante il bombardamento del paese, che ridisegna quella della famiglia di Gesualdo a Mangalavite nel tentativo di fuggire gli umori venefici del colera. E ancora Ivo che viene mandato in un collegio sul mare per curare il suo respiro debole e sfiatato, così come Isabella, la figlia ribelle e scapestrata di Gesualdo, che in tante cose somiglia all’Ada, viene spedita in collegio per ricevere un’educazione degna di una ragazza di aristocratiche origini. Perfino la tisi, che colpisce e uccide Bianca, rivive nella tubercolosi di Ivo.
Particolare rilevanza acquisiscono le ambientazioni dei romanzi di Riccarelli: non più solamente contesti spazio-temporali, ma presenze fisiche, palpabili, inaspettatamente vitali. Lo scrittore ci accompagna in un viaggio eccezionale attraverso le atmosfere brumose e fantastiche della Galizia di Un uomo che forse si chiamava Schulz, arrampicata come un acrobata sulle pareti scoscese di roccia alpina, ci conduce nella metropoli oltraggiata e derisa di Stramonio, descritta dalla luce flebile dell’alba o sprofondata in suggestivi paesaggi notturni, ci guida nella sabbia accecante dei deserti d’Africa di Un mare di nulla, nel freddo metallico e sterminato delle steppe russe, nella trasparente accoglienza delle vallate assolate di Comallamore, nella provincia dimenticata e sorda de L’amore graffia il mondo. Questa partecipazione si avverte particolarmente in Il dolore perfetto dove, nell’Italia post-unitaria, in una Toscana ridisegnata da una geografia immaginaria e alimentata dai ricordi familiari dell’autore, Riccarelli allestisce le quinte di una scenografia semplice eppure magnifica, viva come uno dei personaggi che la attraversano, capace di raccontare storie e liberare pensieri con le distese mute dei suoi panorami arrotondati, con la fierezza arcana di un pugno di vecchie case disseminate sul pianoro nella luce del tramonto, e che fa lamentare all’Ulisse, ormai disperato, di come «Iddio dovrebbe essere bestemmiato per tanta cattiveria, per la linea curva, per l’eleganza del cipresso, per la perfezione delle colline», perché a volte «la troppa bellezza può ferire fino alla morte» (Riccarelli, 2004, p. 109).
III. Alla guida del suo piccolo esercito di personaggi, lo scrittore ciriaciese combatte, di romanzo in romanzo, un’affannosa battaglia per insegnarci quella che lui stesso definisce «la forza analgesica della parola», l’antidoto contro il veleno di una modernità che guarda al passato con indifferenza, che relega la storia nei labirinti oscuri della dimenticanza, incurante della grande potenza educatrice della memoria che pure nasconde una parte di sé nella quotidianità del nostro presente. La parola è, di conseguenza, lo strumento privilegiato tramite il quale il passato risorge per indicarci un futuro conveniente le cui asperità siano state levigate proprio dall’autocoscienza della memoria. La letteratura, in questo quadro specifico, possiede una valenza antropologica che aiuta a fissare nel tempo quella forma di esperienza individuale che è il ricordo. Le circostanze raccontate da Riccarelli non sono semplicemente quelle epocali, studiate e tramandate nei libri impolverati dello studioso ovvero scandagliate dal rigore matematico della ricerca, ma le piccole faccende della gente comune che dentro l’orologio della storia scandisce tempi infinitesimali rimanendo spesso sopraffatta da un ingranaggio gigantesco e inarrestabile. Luoghi e nomi dimenticati, percorsi segnati nell’acqua, storia nella Storia, deboli rumori di fondo il cui scopo non è quello di documentare ma di esplorare, attraverso la vita di chi ci ha preceduto, una terra sconosciuta, un viaggio allucinante dentro noi stessi alla scoperta di una sensibilità perduta che nessuna scienza può comprendere:
Io non so se la letteratura, davvero, ci salvi la vita, certamente, come ha detto Pessoa, la letteratura è la dimostrazione che la vita non ci basta. Così, credo che essa sia un meraviglioso paradosso che nel suo carattere di falsità (nel senso che gli scrittori, come invece gli storici, non sono tenuti a documentare la verità di ciò che raccontano) la letteratura arrivi a fornire una conoscenza altrettanto valida di quella scientifica. Una conoscenza che, proprio perché non completamente vincolata da paletti razionali e reali, riesce ad andare in profondità, sa toccare emozioni e mondi nascosti, sotterranei, interiori.
Con l’aiuto dell’immaginazione il racconto diviene un’essenza feconda che trasporta ambizioni e miraggi in un lungo migrare senza età, un pellegrinare di mondi, come in una macchina del tempo, per continuare a regalarci quello che da sempre appartiene agli uomini ma che spesso gli uomini dimenticano: la speranza della felicità.
mar_marsi@yahoo.it
Bibliografia
Ugo Riccarelli, 1995, Le scarpe appese al cuore, Feltrinelli, Milano
—, 1998, Un uomo che forse si chiamava Schulz, Piemme, Casale Monferrato
—, 2009a [2000 Piemme] Stamonio, Einaudi, Torino
—, 2004, Il dolore perfetto, Mondadori, Milano
—, 2006, Un mare di nulla, Mondadori, Milano
—, 2009b, Comallamore, Mondadori, Milano
—, 2011, Ricucire la vita, Piemme Voci, Milano
—, 2012, L’amore graffia il mondo, Mondadori, Milano
Antonio Tabucchi, 2007 [1975 Bompiani], Piazza d’Italia, Feltrinelli, Milano
Furio Monicelli, 2000 [1961 Longanesi], L’amore guasta il mondo, Mondadori, Milano
Giovanni Verga, 2005, Mastro-don Gesualdo, Einaudi, Torino